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Promemoria di un'esperienza. 3. Le direttrici fondamentali del progetto educativ...

Ma come attuare in concreto il proprio compito educativo ispirandosi all'esperienza di Don Bosco? Come può essere incarnato oggi il sistema preventivo nella prassi quotidiana?


Promemoria di un'esperienza. 3. Le direttrici fondamentali del progetto educativo di D. Bosco

 

Ma come attuare in concreto il proprio compito educativo ispirandosi all'esperienza di Don Bosco? Come può essere incarnato oggi il sistema preventivo nella prassi quotidiana?

 

 

1. Il centro propulsore del metodo è l'amorevolezza, volto della carità apostolica

 

 

Don Bosco stesso, nella risposta a un giornalista del Journal de Rome, ne rivela il segreto: «Semplicissimo: lasciare ai giovani piena libertà di fare le cose che loro maggiormente aggradano. Il punto sta di scoprire in essi i germi delle loro buone disposizioni e procurare di svilupparli. E poiché ognuno fa con piacere soltanto quello che sa di poter fare, io mi regolo con questo principio e i miei allievi lavorano tutti non solo con attività, ma con amore» (MB 17).

 

 

Ed è proprio così! Don Bosco non si propone di educare con metodi speciali o con sofisticate strumentazioni, anche se non li esclude. Il nucleo centrale del suo sistema consiste nell'eccezionale e umanissima capacità di intuire l'animo giovanile e nella fiducia sincera e reale nelle molteplici risorse di cui il giovane è portatore. La sua abilità educativa non scaturisce da facile giovanilismo, non è costruita su rapporti calcolati. Essa sgorga invece da una straordinaria esplosione di valori umani e cristiani in grado di suscitare il gusto e la gioia del vivere autentico e totale.

 

 

Il centro propulsore dell'azione educativa secondo Don Bosco sta nell'amore, o, come egli gradiva definirlo, amorevolezza, che è l'anima del sistema preventivo. Don Bosso educa con il sistema della bontà. E bontà vuol dire un amore che sa farsi amare, un amore che suscita amore, un amore dimostrato che libera e salva, è la forma visibile e pratica dell'ideale supremo della carità, che prende il volo di bontà educativa. «Che cosa ci vuole dunque? - si chiede Don Bosco -. Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati» (lett. da Roma 1884). Per lui infatti «l'educazione è cosa del cuore; tutto il lavoro parte di qui, e se il cuore non c'è, il lavoro è difficile e l'esito incerto» (A. Caviglia).

 

 

L'educatore può essere attrezzato dei migliori metodi, possedere una fine abilità comunicativa e conoscere a fondo le dinamiche della maturazione umana, ma se è privo di cuore educativo, se in lui fallisce lo slancio dello spirito, vani saranno i suoi sforzi. Poiché educare è in definitiva incontrare il mistero dell'uomo.

 

 

L'azione educativa del resto non è una semplice questione di strumenti o di tecniche. Soprattutto un mondo come il nostro, che «trasforma le virtù in prestazioni e gli ideali in servizi» (Alberoni), necessita di un supplemento d'anima.

 

 

E l'anima del metodo di Don Bosco è «un amore che si dona gratuitamente, attingendo alla carità di Dio» (C. 20). Si legge nel trattatello: «La pratica del sistema preventivo è tutta appoggiata sopra la parola di Paolo che dice Charitas benigna est, patiens est». Predilezione, benevolenza, amorevolezza sono espressioni che scaturiscono dalla carità. È la bontà paterna di Don che guida Don Bosco nel suo lavoro, è l'amore attento e gratuito del buon Pastore che anima la sua vita.

 

 

Eppure il suo è anche amore esigente. Non c'è amore senza sacrificio, senza impegno. Esso va nella direzione di consacrare ogni fatica, di adoperarsi per educare. È la richiesta di disponibilità, di quella disponibilità interiore che supera ogni passione egoistica e diventa una via che conduce al cuore del giovane, favorendo un cammino di autenticità di vita.

 

 

A Don Bosco interessa soprattutto giungere al cuore, guadagnare il cuore, farsi amici i giovani, per rompere così la fatale barriera di diffidenza e sottentri a questa la confidenza filiale. E per arrivare al cuore tutto deve essere sopportato; ogni sforzo deve essere convogliato lì.

 

 

Don Bosco, insomma, riconosce che la carità di Dio è fonte di bontà, modello nell'azione e guida nel condurre al cuore.

 

 

«Ricordatevi che l'educazione è cosa del cuore, e che solo Dio ne è il padrone, e noi non riusciremo a cosa alcuna se Dio non ce ne insegna l'arte e non ce ne dà in mano le chiavi» (Ep. IV, 209).

 

 

Per questo l'educatore può essere sempre pieno di speranza, anche nei casi difficili, poiché è centrato sulla speranza che proviene da Dio.

 

 

 

2. Comunicare per una prospettiva: la salvezza, la pienezza di vita

 

 

Un ulteriore elemento che Don Bosco offre è la chiarezza di prospettiva dell'educazione. Comunicare in modo educativo è essenziale nell'azione tra i giovani. Il sistema preventivo cerca il dialogo. Nel nostro mondo invece si fatica a stabilire relazioni, nonostante il moltiplicarsi delle informazioni. L'incomunicabilità è una delle patologie odierne. Eppure non basta parlare per creare rapporti educativi, ancor peggio se tutto tace attorno. Occorre stabilire relazioni che comunicano esperienza di vita.

 

 

Ma il dialogo non è facilmente attuabile senza un adeguato contesto, un clima di accoglienza. Certo: anche senza volerlo, noi comunichiamo comunque, viviamo in un tessuto di rapporti interpersonali che plasmano la personalità. Tante convinzioni si assorbono in un ambiente carico di messaggi. E spesso le cose più importanti si comprendono senza dirle, ma intuendole nella fiducia vicendevole.

 

 

Eppure stabilire il dialogo è fondamentale: esso avviene tra interlocutori che possiedono esperienze differenti. E la diversità crea scambio. Oggi abbiamo capito, come educatori, che l'eliminazione delle distanze è un falso, è solo giocare ad essere giovani. È una truffa educativa comunicare come se, non presentando se stessi. I conflitti e le frustrazioni che ne conseguono possono essere terreno di crescita, come le gratificazioni incoraggiano il cammino. Un vero educatore comunque presenta il suo volto, non può narrare che la propria storia, anche se sa che fare educazione non è ripetizione schematica della sua esperienza, bensì è comunicare per uno scambio di crescita, è compagnia per un cammino di comune maturazione.

 

 

Ma perché comunicare, dialogare, mettersi in relazione? Per che cosa? La comunicazione educativa possiede intrinsecamente una finalità. Le esperienze che si fanno messaggio si traducono necessariamente in prospettive di vita. Don Bosco vive questo, si rende amico dei giovani per guadagnarli alla vita, alla pienezza di vita; ne conquista i cuori per avvicinarli alla sorgente della Vita. Ne dà convincente attestazione il primo successore, don Michele Rua: «Il nostro Padre non diede passo, non pronunciò parola, non mise mano ad impresa che non avesse di mira la salvezza della gioventù... Realmente non gli stava a cuore altro che le anime» (Lett. 24.8.1894). Don Bosco stesso giunge persino a dichiarare che «nelle cose che tornano a vantaggio della pericolante gioventù o servono a guadagnare anime a Dio, io corro avanti fino alla temerità» (MB 14, 662).

 

 

La volontà di bene, di vita, di salvezza è la motivazione che lo guida: «La mia affermazione è fondata sul desiderio che ho di salvare le vostre anime, che furono tutte redente dal sangue di Gesù Cristo; e voi mi amate perché cerco di condurvi per la strada della salvezza eterna. Dunque il bene delle vostre anime è il fondamento della nostra affezione» (Ep. II, p. 339). Del resto, il giovane «capisce da ciò chi gli vuole veramente bene», «se si entra a parlargli dei suoi interessi eterni» (MB VI, 385).

 

 

Tutta la sua azione è orientata a fare spazio al piano di Dio nella vita dei giovani. «Don Bosco - ha asserito con vigore - è il più gran buonuomo che vi sia sulla terra; rovinate, rompete, fate birichinate, saprà compatirvi; ma non state a rovinar le anime, perché allora diventa inesorabile» (MB VIII, 40).

 

 

A tal fine egli era «sempre in mezzo ai giovani» con una presenza propositiva. «Aggiravasi qua e là, si accostava or all'uno, or all'altro, e, senza che se ne avvedessero, li interrogava per conoscerne l'indole ed i bisogni.

 

 

Parlava con confidenza a questo e a quello; fermavasi a consolare o a far stare allegri con qualche lepidezza i malinconici» (MB III, 119). La sua è una presenza amichevole e personale, libera e coinvolgente, carica di messaggi e di valori. È un costruire insieme un cammino di crescita da condividere.

 

 

Anche se l'educatore non è la persona perfetta, colui che non sbaglia mai, la sua testimonianza di vita rimane pur sempre un capitolo nevralgico nell'educazione. Don Bosco parlava spesso di buon esempio, della sua forza attraente e coinvolgente. Il fascino della testimonianza è del resto sotto gli occhi di tutti. Davvero «l'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri; e se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (EN 41).

 

 

Ma quale progetto di vita propone Don Bosco?

 

 

 

3. Il progetto di vita di Don Bosco: onesti cittadini e buoni cristiani

 

 

Se si intende davvero educare, non si può evitare di indicare con verità la strada da percorrere. Don Bosco la esprime con una formula assai semplice: vivere da onesti cittadini e buoni cristiani Questo è il progetto di vita che egli propone.

 

 

La religione entra nella prospettiva del progetto. Don Bosco asseriva a tale riguardo con convinzione: «Io ritengo che senza religione non si possa fare nulla di buono tra i giovani».

 

 

Il suo pensiero è inequivoco. Il progetto risulta senza dubbio contrassegnato da un cammino educativo orientativo a Cristo, l'uomo perfetto, il Signore della vita. Sarebbe del resto assurdo pensare altrimenti. E tuttavia Don Bosco interpreta la finalità educativa in modo del tutto originale. Ne offre una formulazione che rimane storica: formare l'onesto cittadino nella società civile, buon cristiano nella Chiesa e un giorno fortunato abitatore del cielo (Reg. Coop. 1876), dichiarando così il suo interesse per la totalità della vita giovane.

 

 

Don Bosco considera il giovane nella sua vocazione totale, agisce per la promozione integrale della persona, senza disgreganti riduzionismi o unilateralità deformanti. Il suo interesse è la persona del giovane e la sua vita.

 

 

Egli non propone un progetto di vita costellato di parentesi (i momenti di preghiera ritenuti importanti), o fatto di intervalli (allorché ci si impegna sulle cose serie), e neppure prospetta una vita che scivola sulle situazioni quotidiane (quasi non fossero parte della vita religiosa). La sua proposta è di educare immergendo nella vita per far emergere quanto di più degno alberga nell'uomo. Egli sa che i giovani vivono un'età in cui si fanno scelte di vita fondamentali che preparano l'avvenire della società e della Chiesa, e anticipano il progetto di uomo che andranno costruendo.

 

 

Con sempre maggiore evidenza si avverte questo come problema cruciale della educazione odierna. Oggi occorre davvero passare da una società dell'uomo prassi alla cultura dell'uomo totale. Il problema odierno è infatti educare ad essere di più come uomini, a considerare il volume totale dell'uomo (Mounier) per farlo crescere pienamente uomo, veramente uomo, nella pienezza dell'uomo nuovo.

 

 

La sollecitudine di Don Bosco «di evangelizzare i giovani non si riduce alla sola catechesi, o alla sola liturgia, o agli atti religiosi comunque, ma spazia in tutto il vasto settore della condizione giovanile. Essa si situa all'interno del processo di formazione umana, consapevole delle deficienze, ma anche ottimista circa la progressiva maturazione. Egli è convinto che la parola del Vangelo deve essere seminata nella realtà del vivere quotidiano per portare i giovani ad impegnarsi generosamente.

 

 

Il messaggio evangelico li accompagna lungo il processo educativo e la fede diviene elemento che unifica e illumina la loro personalità» (JP 15). «Chi segue Cristo, uomo perfetto, si fa lui pure più uomo» (GS).

 

 

Chiara dunque deve essere la percezione della meta ultima, per non rischiare di perseguire imperativi apparenti, ma il cammino educativo si immerge nella storia con i suoi problemi e le sue speranze. La visione educativa integrale di Don Bosco reclama grande attenzione all'uomo fenomenico (Paolo VI), all'uomo storico, quotidiano (Giovanni Paolo II).

 

 

Don Bosco sa che il ragazzo è ragazzo, che la sua esperienza più viva è la gioia, la libertà, il gioco, la società dell'allegria.

 

 

Il suo metodo richiede massima attenzione alle sensibilità dei giovani e alle loro potenzialità. Aperto a tutte le loro esigenze più autentiche, Don Bosco intende promuoverle per essere all'avanguardia del progresso nella edificazione di una civiltà della verità e dell'amore. Sostenuto da una fiducia inesauribile delle possibilità dei giovani e da una fede radicale nel Dio che opera la salvezza, egli educa con una certezza incrollabile in cuore, che si fa convinzione educativa: Dio è presente e opera nella vita di ogni giorno.

 

 

Così la religione non può essere presentata con l'autorità dei principi: egli conosceva l'inefficacia di questo metodo. Solo l'autorevolezza della persona credibile, che ispira fiducia, che si accosta con la forza della motivazione ragionevole, conquista. Solo percorrendo le vie della persuasione paziente e del dialogo amichevole si può far breccia nel cuore del giovane per portarlo a Dio. Naturalmente Don Bosco è più che consapevole della fragilità (mobilità) dell'animo giovanile. E tuttavia non intraprende scorciatoie, si incammina sul sentiero paziente della ragione. «Lasciati guidare sempre dalla ragione e non dalla passione» (MB X, 1023), questo porta a conquistare con esito i cuori. Per tal motivo il sistema di Don Bosco è scevro di complicazioni e formalismi, di enfasi pedagogiche e di esagerazioni. Esso si presenta ragionevole e accessibile a tutti. In fondo, si tratta di costruirsi onesti cittadini e buoni cristiani.

 

 

 

4. L'ambiente educativo: una rete di rapporti in stile collaborativo e solidale

 

 

Nel trattatello Don Bosco non parla di famiglia, eppure il suo stile educativo ne fa continuo riferimento, anzi essa rappresenta il punto d'incontro di molteplici istanze. Il modello familiale sta sullo sfondo del sistema preventivo.

 

 

Riferirsi oggi alla realtà della famiglia fa sentire a disagio: è inevitabile avvertire che ci si muove come su sabbie mobili. Ma se da un parte si è consapevoli della mutevolezza della sua immagine (si pensi al tipo di rapporti nella famiglia patriarcale, nucleare, unicellulare... o alla estensione o restrizione dei suoi compiti nei diversi contesti socioculturali); dall'altra si può tuttavia affermare che rimane una realtà di riferimento come cellula del tessuto sociale (in essa cresce la personalità di base e si viene acculturati).

 

 

Ora il sistema preventivo presenta tratti caratteristici di tipo familiale. Il metodo di Don Bosco ha il suo perno nella realtà di famiglia, carica di un'atmosfera di serio impegno, ma in particolare strutturata in rapporti semplici e immediati. Ciò è tanto tipico di Don Bosco che la sua scuola è stata definita la scuola-famiglia (G. Lombardo-Radice). In lui è assolutamente chiaro che l'educazione è opera efficace dell'ambiente e si realizza con più naturalezza là dove sussiste un sistema relazionale familiare. Per questo Don Bosco si preoccupa di costruire con i giovani un ambiente accogliente e aperto: così l'oratorio di Valdocco doveva essere una casa, ossia una famiglia, e non un collegio.

 

 

Il suo rapporto infatti è come tra padre e figli. Nelle Memorie dell'Oratorio Don Bosco scrive con tenerezza di padre: «Per i miei figli spirituali sarà divertente leggere come se l'è passata a suo tempo il loro padre». E in questo senso sono pure emblematiche le sue prese di posizione: il direttore e gli educatori devono parlare con i giovanetti come buoni padri; l'educatore si presenti come padre e dichiaratamente come amico.

 

 

Per educare nello stile di Don Bosco occorre dunque promuovere rapporti primari, si esige l'incontro tra persone. Nel suo sistema il valore delle relazioni personali, oggi così sentito tra i giovani, è riconosciuto in pieno.

 

 

Le istituzioni educative devono interrogarsi seriamente su tale problema. Il formalismo istituzionale anonimizza le persone e promuove solitudine. Un ambiente educativo invece pone al centro del suo sistema di rapporti il giovane e ne valorizza le potenzialità espressive e partecipative. Senza condivisione e collaborazione non sussiste autentica possibilità educativa. Il processo di crescita infatti conduce all'assunzione di responsabilità autonome e all'attuazione di libere scelte di vita.

 

 

D'altra parte, una istituzione aggrega persone che intendono realizzare un progetto comune. Per Don Bosco crescere insieme in maturità umana e cristiana non è proposito secondario, anzi qualifica il cammino di tutti. L'ambiente educativo diviene così anche generatore di movimento che aggrega persone e gruppi per influire sulla comunità più ampia in cui si sente pienamente inserito e partecipe.

 

 

Giovanni Battista Bosco

http://www.notedipastoralegiovanile.it

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