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Che cosa mi sta insegnando “Glio”?

Pubblichiamo una pagina di diario di don Giuseppe Tacconi, insegnante, salesiano del Don Bosco di Verona, venuto a mancare da qualche giorno dopo un anno di malattia.


Che cosa mi sta insegnando "Glio"?

don Giuseppe Tacconi - 27 maggio 2019: prima puntata

 

C’è un che di paradossale in ciò che sto vivendo in questo periodo: da poco più di tre mesi mi è stato diagnosticato un tumore particolarmente aggressivo al cervello (“gliomatosi”, che nel titolo abbrevio in “Glio”). Si tratta di una malattia grave, dall’esito, come si dice in questi casi, “infausto”; è l’espressione che spesso si legge in rete, in riferimento a questo genere di tumori. In realtà, si può dire che non tanto le malattie ma tutte le vite hanno, per certi aspetti, esito “infausto”, dato che siamo tutti mortali; il senso di questo mio contributo nel blog è cercare di interrogare – e forse disturbare – l’aggettivo “infausto”. Su questo desidero però tornare più avanti, verso la fine del contributo.  

 

Cio’ che rende paradossale la situazione è forse anche il fatto che, come mi hanno spiegato, questo tumore non è generalmente associato a dolore fisico e rappresenta, almeno nella fase che sto vivendo io, una pausa che consente di pensare, uno spazio e una possibilità di riflessione particolari, che qui vorrei tentare, per quanto possibile, di restituire ad altri.  Su di me, basti dire che ho 53 anni, sono prete salesiano e docente universitario, impegnato nella ricerca pedagogica e didattica all’Università di Verona.  

 

Il tumore mi è stato diagnosticato recentemente, l’11 febbraio 2019, dopo che da qualche giorno ero stato ricoverato all’ospedale “Sacro cuore” di Negrar (VR) per un attacco epilettico notturno.  Una delle prime reazioni alla diagnosi è stata quella di riporre i saggi accumulati sul mio comodino in ospedale, che stavo rileggendo per prepararmi ai corsi che avrei tenuto nel secondo semestre, e aprire un testo di poesie che un amico mi aveva portato in ospedale e che non ero ancora riuscito nemmeno a sfogliare. Sentivo il bisogno di parole diverse da quelle normalmente presenti nei saggi, parole più dense, dentro cui rispecchiarmi, parole che mi aprissero a un pensare e a un sentire diversi.  

 

Non ho provato - e non provo - sgomento (anche il cortisone è forse complice di questo), piuttosto un improvviso rallentamento, accompagnato dalla sensazione prevalente di essere portato, condotto. Sto vivendo un momento di pausa, che fa mollare la presa e serve a guardarsi intorno, indietro, avanti, di lato, di sopra, di sotto.  Questo senso di rallentamento si è presto intrecciato con il senso di un’improvvisa accelerazione. A premere, per una volta, non era l’affollarsi nella mente dell’elenco delle cose da fare, col loro carico di urgenza. Questo pensiero si riaffaccerà più avanti e comunque in forme diverse da quelle a cui ero abituato o di cui ero preda. L’accelerazione ha riguardato – e riguarda – più il movimento verso l’essenziale, che improvvisamente distoglie l’attenzione da tutto ciò che ingolfa, chiamando a sé. Mi si è posta più chiaramente la questione di che cosa sia essenziale: non le prestazioni, non il correre e il fare, ma il condividere con altri conversando e il gustare spazi, tempi, ricordi, emozioni. È proprio questa l’attività che di fatto più mi sta impegnando negli ultimi mesi.  

 

Vivo una straordinaria intensificazione dell’esperienza e una graduale crescita di consapevolezza. Da qui l’esigenza di stendere un diario, di annotare accuratamente ciò che avviene in me, di registrare vissuti e pensieri.  Facendo questo sono stato spesso invaso da un senso di riconoscenza per la vita e le persone attorno a me e ho provato il desiderio impellente di scorrere nomi e volti, di conversare, di celebrare legami, di incontrare gli amici e salutare.  La situazione cambia, si evolve e so che si evolverà nel tempo; le messe a fuoco sono sempre parziali e ricorsive, ma mi sembra che alcune convinzioni si vadano consolidando. Prima fra tutte quella di essere affidato al bene. È quasi un abbraccio.  I miei familiari, i miei confratelli salesiani, i colleghi e le colleghe dell’Università e molte altre persone amiche si sono rese particolarmente vicine: vengono a trovarmi, si fanno presenti con messaggi, offrono aiuto, chiedono di parlare, mi regalano cura, ascolto e attenzione.  

 

Non so come andrà, quanto tempo mi resterà (del resto chi può davvero sapere questo?). So solo che la malattia sta rappresentando per me l’occasione di ripensare in profondità la vita, occasione “fausta”, dunque, tutt’altro che “infausta”.  In fondo, la morte stessa, che tutti ci attende, non è detto rappresenti evento “infausto”. Può essere vista come una condizione beata, che, anche togliendoci la regia di ciò che ci succede, ci fa sentire sostanzialmente affidati.  Accettare di essere mortali, consapevoli di muoversi alle soglie del mistero, rallentare e accelerare, alla fine di tutto, affidarsi: ecco cosa mi sta insegnando Glio.

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