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I mille cortili di don Bosco

Ecco la realtà delle missioni don Bosco: 1.775 oratori, oltre 1.000 scuole e acquedotti, lebbrosari, dispensari medici...


 

del 10 gennaio 2017

Ecco la realtà delle missioni don Bosco: 1.775 oratori, oltre 1.000 scuole e acquedotti, lebbrosari, dispensari medici...

 

Una tettoia affacciata sul cortile di Valdocco: è qui che nel 1846, nel cuore di una Torino ferita dalle diseguaglianze, don Bosco fondò il suo primo oratorio. In questo stesso luogo (seppur molto trasformato), a oltre un secolo e mezzo di distanza si trova la sede delle Missioni don Bosco, cui spetta il compito di sostenere le opere salesiane nei cinque continenti.

Fin da subito il “santo dei giovani” ha lavorato con uno sguardo internazionale, poi accentuatosi nel tempo, tanto che oggi, dei 16 mila sacerdoti facenti capo alla congregazione salesiana, circa 10 mila vivono sparsi nel mondo. Attive in una cinquantina di Paesi, le Missioni don Bosco hanno realizzato 1.775 oratori e centri di accoglienza per ragazzi, 270 opere speciali per giovani in difficoltà e più di 1.000 scuole, oltre ad acquedotti, infermerie, farmacie, case per i senza tetto, lebbrosari, asili e dispensari medici. Esistono, quindi, migliaia di Valdocco, dove giovani di ogni provenienza (ma soprattutto i più disagiati) possono giocare, studiare e trovare adulti disposti a prenderli sul serio. Giampietro Pettenon, presidente delle Missioni don Bosco, racconta di un cortile molto particolare, che ha avuto occasione di visitare recentemente: si trova alla periferia di Antananarivo (capitale del Madagascar). «È all’interno del carcere minorile, tra muri, sbarre, e stanzoni che ogni giorno, alle 17 in punto, vengono chiusi a chiave fino al mattino seguente. Eppure, anche in una situazione estrema, i novizi salesiani (cioè i giovani che si preparano alla vita consacrata, ndr) riescono a fare oratorio. Tutte le domeniche, dopo aver celebrato la Messa, offrono ai ragazzi un pranzo speciale, l’unico completo e abbondante della settimana. Poi organizzano un pomeriggio di grandi giochi».

In Madagascar basta poco per finire dietro le sbarre: quasi tutti i 100 giovani detenuti, che hanno tra gli 8 e i 18 anni, sono in carcere per piccoli reati. «Molti provengono da famiglie difficili. Quando si ritrovano in strada, non avendo di che vivere, commettono qualche furto e vengono arrestati. I Salesiani lavorano per migliorare le loro condizioni di vita nella struttura penitenziaria (ad esempio, grazie ai fondi dei benefattori, i vecchi letti a castello che rischiavano di crollare sono stati sostituiti), ma si impegnano anche per offrire un’alternativa alla delinquenza e al disagio». La strada maestra è quella dell’istruzione.

Nella capitale, come in altre città del Paese, si trovano scuole e centri di formazione professionale che preparano futuri falegnami, muratori, saldatori, elettrotecnici, esperti di agricoltura e allevamento. Lì si impara un mestiere, ma non solo. «Nella scuola di Antananarivo» spiega il presidente di Missioni don Bosco «l’attività inizia alle 6 del mattino, con la colazione. Alle 6 meno cinque i ragazzi, compresi quelli che devono fare un’ora e mezza di cammino per raggiungere l’istituto, sono già tutti davanti al cancello. Per molti di loro le colazioni e i pranzi a scuola sono la sola possibilità di sfamarsi». L’alimento base della dieta malgascia è il riso. Le risaie dell’isola, però, sono in condizioni difficili.

 

RISO DA MANGIARE E DA VENDERE

È per questo che, in un’area pianeggiante a 80 chilometri dalla città di Mahajanga, i Salesiani hanno acquistato 96 ettari di terreno e ora stanno avviando una grande azienda risicola ecosostenibile, che coinvolge i lavoratori locali, con il coordinamento di esperti italiani. «Un terzo della produzione servirà per sfamare i 3.500 ragazzi che ogni giorno frequentano le opere salesiane, il resto sarà venduto sul mercato locale, in modo da consentire alle persone coinvolte un minimo di autosufficienza economica». Ecco un tema trasversale a tante realtà sparse nel mondo. Sacerdoti, suore e volontari sanno bene che il futuro delle loro comunità sarà sempre a rischio finché dipenderà solo da contributi esterni (pur tanto preziosi). Per questo le comunità salesiane si ingegnano per costruire dei microcosmi economici capaci, nel tempo, di reggersi sulle proprie gambe.

Da 30 anni padre Serafino Chiesa, classe 1949, originario di Santo Stefano Roero (Cuneo), parla di «motore di sviluppo». La sua missione si trova a 4 mila metri d’altitudine, a Kami, un accampamento di minatori sperduto tra le Ande boliviane. Vi abitano 100 comunità di campesinos di etnia Aymara e Quechua. La povertà è estrema e la speranza media di vita non supera i 40 anni. In questa terra feroce e stupenda il sacerdote, dopo essersi prodigato per la costruzione di un ospedale e di altre opere sociali, ha immaginato un progetto visionario per trarre beneficio dalla sola risorsa disponibile: l’acqua. È iniziata così la costruzione di una centrale idroelettrica. Sono state coinvolte centinaia di persone: grandi aziende che hanno fornito le turbine di impianti dismessi, gruppi di tecnici che le hanno restaurate, ingegneri ed esperti da diverse regioni d’Italia, gruppi parrocchiali, mano d’opera più o meno specializzata. E poco a poco, seppur tra enormi difficoltà, quel sogno ha preso forma. «Una parte dell’impianto è già in funzione» racconta Antonio Benigni, volontario che dal ’98 a oggi è stato in Bolivia sei volte. «A breve, con il completamento del cosiddetto “terzo salto”, la centrale potrà entrare pienamente a regime».

 

MISSIONARIO O INGEGNERE?

A guardare le condizioni di partenza, c’è da restare increduli, così come stupefacente è la tenacia del sacerdote salesiano. Tra l’altro, la sua competenza tecnica è a tal punto cresciuta negli anni che una volta un ingegnere, togliendosi gli occhiali sbalordito, gli ha chiesto «Ma tu hai studiato Teologia o hai frequentato il Politecnico?». All’origine di tutto, una preghiera profonda: «Signore, ricordati che i poveri sono anche tuoi». «È una frase cara a don Sera fino» ricorda il volontario. «L’ha spesso ripetuta anche in situazioni di pericolo: portando pace tra fazioni armate di indigeni, rischiando di essere travolto da un fiume in piena o di finire in un burrone, pur di non abbandonare le comunità più isolate». (Per saperne di più e per sostenere i progetti dei Salesiani: www.missioni donbosco.org).

 


Di Lorenzo Montanaro

Tratto da: http://www.famigliacristiana.it/

 

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