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Don Bosco, la felicità e l'attimo fuggente

Don Bosco chiedeva a tutti di essere allegri, vale a dire di costruire con lui questo ambiente che avrebbe consentito a tutti di gustare la vita, di accrescere la vita, di moltiplicare la vita. Il clima migliore, questo, per aiutarli ad incontrare Dio come il Dio della vita.


Don Bosco, la felicità e l’attimo fuggente

da Don Bosco

del 01 gennaio 2002

 Sembra che la felicità possieda la natura dell'attimo. Nell’istante in cui la provi, la sperimenti e basta, senza chiederti tanti perché e tanti per come. Ci sei dentro e basta. Ciò che, infatti, caratterizza la felicità è la certezza del proprio benessere, e ciò è possibile solo se si è immersi interamente in esso.

La felicità possiede dunque i tratti dell'immediatezza e ciò è così vero che, se può bastare poco per essere felici, è impossibile esserlo se si perde la certezza della propria condizione, se si immagina che essa può essere perduta. L'uomo non attinge la felicità per via di riflessione: in senso stretto l'uomo non sa di essere felice, si sente felice.

Ecco dunque l’istante o il periodo di felicità. Una volta giunti al vertice, inizia la caduta, e quel che nel rapimento dell'attimo sembrava per gli uomini eterno appa­re transitorio.

Quel che però è decisivo è il fatto che gli uomini, nel dile­guarsi stesso della sensazione di felicità, si accorgono che già varie volte sono stati felici e che perciò quel che al presente di dissolve non vieta che ci si possa attendere beni fu­turi.

Spesse volte abbiamo avuto in grazia gioie per noi im­previste e per nulla meritate e abbiamo patito dolori che per legge di giustizia non avremmo mai dovuto avere in sorte. Se ciò è vero, perché escludere che il bene perduto possa essere per altre vie riagguantato? Tutto questo certo non risarcisce gli uomini dalle perdite, ma rende loro più lieve il peso della delusione e non uccide in loro la speranza.

La felicità, quando è perduta non è per questo negata, ma si mostra con altro volto. Si muta in una quantità discreta: in breve, ci si accorge che nella vita si può essere 'più o meno felici'.

Ma ci si accorge di qualcosa di ancora più decisivo: ci si rende conto che la felicità non si risolve affatto nell'in­tensità degli attimi, ma felice, in senso stretto, si può defini­re una vita. 

Gli atti­mi di eternità non rendono felice una vita, ma, al contrario, solo una vita, nel suo complesso felice, riesce ad accogliere l'irruzione degli attimi come un dono, a vivere come sovrab­bondanza di grazia quanto per altri diviene talvolta ragione di maggior dolore e di insana pretesa.

Se la felicità la si può predicare di una vita, colta in tutta la sua interezza, allora essa non la si può far coincidere con la felicità frammentaria imprevista e non ricercata, ma è frutto di una ricerca, è termine di una conquista. Se la felicità la si considera in questa prospettiva, non cessa d'essere definita dall'idea di compiutezza.

Ma tale compiutezza non è da intendere nel­la accezione relativa all'attimo immenso, alla sua perfezione e integrità, bensì in relazione all'immanente capacità che una singola vita possiede nel portare a compimento se stes­sa. L'idea di compimento coincide qui con l'abilità di guadagnare la propria vita a mano a mano che essa si svolge, fino a poterne tollerare il dolore, ma assumendosene in proprio la fatica, a partire dalla con­vinzione che la vita vale di più.

In quanto abilità la felicità è virtù, ma è soprattutto capacità di ringraziare, di gioire per il fatto di essere nati.

Questa gioia non è ingenua e impulsi­va, ma è il risultato di una ricerca su di sé, di conoscenza delle proprie risorse per poterle impiegare al meglio, evitan­do che vengano sprecate nella persuasione, questa volta più remissiva che ingenua, di non possederle.

Solo una vita relativamente felice riesce ad accogliere gli attimi di felicità intensa come dono.

Dunque, se il colpo di felicità è una grazia che arriva quando arriva e va colto al volo, è anche vero che uno si dispone a non perdere quella occasione lavorando su se stesso in modo da vivere una vita relativamente felice.

Qui troviamo uno dei segreti di don Bosco: e si chiama allegria. Che è una disposizione d’animo voluta  ed espressa. 

Voluta: significa che uno se la costruisce dentro lavorando sul proprio temperamento che può essere incline al pessimismo o alla depressione; significa che uno rimuove dalla propria interiorità quanto può creare disagio, disarmonia, insoddisfazione, ostilità verso se stesso e gli altri; significa che uno la chiede a Dio questa serenità di fondo, proprio perché a volte vorremmo averla ma non riusciamo a darcela; significa che uno sceglie i mezzi più  adeguati per coltivarla e sono il gioco, lo sport, il sano divertimento, l’umorismo, le varie forme di espressione giovanile…

Espressa: e cioè tradotta in linguaggi, fatta comunicazione, donata reciprocamente fino a formare un ambiente di cui tutti beneficiano. E’ quello che don Bosco chiamava l’ambiente di “oratorio”, qualcosa di singolare se tanti pedagogisti, ancor vivente don Bosco, venivano apposta a Torino per vedere questo fenomeno e verificare i decantati i risultati educativi.

Don Bosco era convinto che un ambiente fatto così avrebbe fatto gustare ai giovani la vita come dono ( e tanti di loro l’avevano sperimentata come peso se non come maledizione) e li avrebbe resi idonei ad accogliere i doni di felicità che certamente sarebbero giunti.

Per questo don Bosco chiedeva a tutti di essere allegri, vale a dire di costruire con lui questo ambiente che avrebbe consentito a tutti di gustare la vita, di accrescere la vita, di moltiplicare la vita. Il clima migliore, questo, per aiutarli ad incontrare Dio come il Dio della vita.

don Giannantonio Bonato

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